SCATTO DI FAMIGLIA
Leggere per rileggersi
Proposta di lettura e di rilettura del proprio vissuto
Il libro Scatto di famiglia nasce da un sfida letteraria, ma soprattutto dal desiderio di far parlare i nostri giovani per raccontare l’esperienza vissuta in famiglia durante il lockdown.
Dalla lettura fatta da diverse scuole nel corso dell’anno ne sono scaturiti incontri di riflessione e scambio in streaming con alunni e docenti, i quali ci hanno condiviso le difficoltà del complesso momento che stiamo vivendo e le domande di senso e di speranza che, a più di un anno di distanza scaturiscono ancora dal cuore degli adolescenti. Insieme ai curatori del testo e agli autori dei contributi, tutti professionalmente impegnati nell’ambito della formazione e dell’educazione, abbiamo provato a suggerire alcuni possibili percorsi per affrontare il presente e guardare al futuro con speranza.
Il libro ha così continuato a vivere anche dopo la sua pubblicazione, non solo attraverso la lettura, ma anche attraverso l’elaborazione di testi scritti (lettere, racconti, poesie…) realizzati da altri studenti che hanno avuto modo di accostare questo piccolo, ma prezioso testo. Un’esperienza, quella della pandemia, riletta attraverso lo sguardo dei giovani, che vogliamo raccontate ancora per riunire, come in una sorta di Piazza, virtuale e non, le voci spesso inascoltate dei ragazzi di tutta l’Italia.
EVENTO STREAMING
19 novembre
Incontro di presentazione del libro in streaming con:
• Enza Sutera, docente di Psicopedagogie presso l’Università Cattolica e counselor presso diverse scuole superiori
Saranno presenti anche i curatori del libro:
• Paola Bigatto, formatrice e attrice
• Raffaella Acerbi, responsabile del Centro Asteria dei progetti per le scuole
• Elisa D’Alessandro, referente ufficio didattico Centro Asteria
• Paolo Paggetta, dirigente Mediaset
L’incontro prevede un momento di dibattito finale con docenti e studenti.
NELLA TUA SCUOLA
ad hoc
Un approfondimento del libro direttamente in classe/istituto con uno dei curatori e un esperto in ambito educativo e psicopedagogico
L’incontro prevede un momento di dibattito finale con docenti e studenti.
ISTITUTI CHE HANNO GIA' PARTECIPATO
2020-2021
Le mie riflessioni sulla pandemia
Alla mia vita…
Cara Vita,
è da tempo che non parliamo io e te. Perdonami se non ti ho lasciato essere sempre al massimo come era solito che io facessi, ma sono cambiate un po’ di cose.
Cara Vita, cosa ci è successo? Abbiamo forse smarrito quell’entusiasmo che ci faceva ridere anche alla battuta più stupida? Abbiamo preso coscienza di quello che ci stava succedendo intorno,trascurando noi stessi?
Cara Vita, eccomi qui a parlarti e a dirti tutto. Tutto è iniziato un po’ di tempo fa; ero in seminario e sia io che tu facevamo parte di quell’entusiasmo che coinvolse me e gli altri a gridare come pazzi, a correre per i corridoi e ad abbracciarci come se avessimo vinto un mondiale. Il giorno dopo tu ed io ci siamo presi un attimo per riflettere e pensare sul perchè stessimo gioendo per qualcosa che di lì a poco ci avrebbe messo tristezza. Quell’ interrogativo e quella malinconia nel fare la valigie per tornare a casa prima del previsto furono dimenticate per qualche istante mentre viaggiavamo e cantavamo a squarciagola nel pullman.
Cara Vita, eravamo insieme anche nei mesi successivi. La nostra autostima fu la nostra forza in quei mesi, però tu eri cambiata, forse perché a cambiare sono stato proprio io. Ho fatto sparire l’ossessione di avere i capelli pettinati, ho fatto sparire quel mio sapersi vestire bene, facendo spazio alle mode più stravaganti; ho fatto sparire anche la voglia di studiare e ho fatto spazio a menefreghismo nei miei confronti, ad un linguaggio più scurrile, ad un disordine più disordinato di prima, insomma, mi sono rovinato. Tu, però, sai che ci stavo bene, sorridevo, ero felice, giocavo, ero diventato un cuoco, avevo quasi bruciato casa, ma non fa niente. Cara Vita, eravamo spensierati e non ci importava di niente.
Dopo l’estate, dove tutto era tornato normale, ci siamo ritrovati nella stessa situazione di qualche mese prima: nella prima parte c’era sempre un pizzico di menefreghismo e stavolta era verso tutti, incluso me stesso; uscivo con gli amici, li salutavo abbracciandoli e dandogli la mano e qualche volta mi privavo di una delle poche cose che mi teneva al sicuro da quella situazione che tuttora viviamo.
Cara Vita,in un giorno tutto è cambiato. Ci siamo chiusi in casa tutti quanti sentendoci paranoici, impauriti,colpevoli e soprattutto stupidi. Sarebbe bastato prestare maggiore attenzione e avremmo evitato di stare così.
Cara Vita, io mi fermavo a pensare e tu andavi avanti e lo facevi con la scuola, con il dolore e con te stessa e talora mi chiedo cosa sarebbe successo se mi avessi aspettato: quando siamo ritornati ad una piccola normalità, dopo esserci riappacificati, mi sono responsabilizzato; ho ritrovato i miei amici, ma loro non hanno ritrovato me, almeno credo: li salutavo con il gomito e a loro sembrava strano, mi allontanavo se si avvicinavano e rifiutavo persino l’abbraccio della mia migliore amica. Tornavo a casa, mi toglievo quella dannata mascherina, e tu ed io facevamo i conti. Sono davvero strano io, oppure sono strani gli altri? Piangevo, perchè io vivevo di abbracci e di baci, vivevo di progetti che ho dovuto cancellare e godevo di te. Abbracciavo mia madre come se in lei ci fossi tu e tutti quelli che amo.
Cara Vita,intanto che tu andavi avanti e io ti seguivo, impazzivo per le troppe ore davanti ad uno schermo, piangevo per un amore non corrisposto e stringevo i denti ogni giorno.
Cara Vita, costruendo progetti futili,piangendo,fingendo sorrisi e cercando di ritornare a me stesso,sono arrivato qui, a questa lettera.
Ciao Vita, è stato bello parlare con te.
Torna a trovarmi più spesso.
Tuo Stefanoandrea
Prigionieri
Quando ero piccola guardavo per strada i ragazzi più grandi con i loro amici, che si abbracciavano , si baciavano e scherzavano tranquillamente tra loro e non vedevo l’ora ,anche io, di diventare più grande per fare le stesse esperienze . Pensavo che sarei uscita tutti i giorni, che saremmo andati alle feste ,in discoteca a ballare e che avrei trascorso gli anni più belli della mia adolescenza.
Invece non è stato così.
Adesso che sono in questa fase dell’ adolescenza , vorrei solo vivere questi anni serenamente : vorrei abbracciare i miei amici senza paura, vorrei rubargli un morso del loro panino, vorrei che fossimo assembrati tutti insieme sulla riva del mare mentre cantiamo a squarciagola le nostre canzoni preferite, vorrei trovarli ogni mattina nei banchi di scuola con la faccia ancora assonnata e non dietro dei bollini, vorrei vivere quei momenti di spensieratezza che sono sempre stati così tanto naturali.
Ma mi sono ritrovata a essere chiusa in casa, come se la mia casa fosse diventata una prigione e non l’albergo che le mamme si lamentano che sia. Non è certo una gabbia di ferro con sbarre o inferiate, con cancelli o lucchetti, ma è pur sempre una prigione: una comoda, confortevole e rilassante prigione da cui vorrei evadere.
La cosa più divertente della giornata monotona che trascorro, sono quelle poche ore dove vedo i miei amici su uno schermo, dove ci raccontiamo quanti compiti ci hanno assegnato i professori per il giorno dopo.
In questo momento siamo la parte della società dimenticata da tutti, si, perché gli adulti pensano solo al lavoro e al fatto che le cose vanno male ; poi si pensa ai bambini che stanno crescendo chiusi in casa e poi si pensa agli anziani che sono la categoria più a rischio. Ma chi pensa a noi?
Se ci lamentiamo ci viene detto che ci sono problemi più grandi, che stiamo ingigantendo le cose. In questo momento della nostra vita dovremmo venir sgridati perché torniamo a casa in ritardo dopo essere stati a una festa, aver bevuto e aver baciato sconosciuti e non essere rimproverati perché semplicemente siamo completamente esauriti. < stai mangiando troppo, mangi troppo poco; studia di più , impegnati, e poi staccati da quel telefono>
Perché mai dovrei staccarmi dai social network quando sono l’unico posto in cui qualcuno mi capisce? Perché il problema non siamo noi giovani che non abbiamo voce, noi urliamo con tutto il fiato che abbiamo in corpo , siete voi che non avete voglia di ascoltarci. Siamo soli. Non sappiamo se, e quando potremmo tornare a vivere la nostra adolescenza. Però in tutto questo la cosa importante è andare bene a scuola no?
Antonella Visaggio 3 Asu
Per valorizzare al meglio gli elaborati ricevuti,
abbiamo coinvolto dei giovani attori nella lettura di alcuni brani
Una sfida letteraria
in un'occasione speciale
La mia famiglia al tempo del coronavirus: quali sono le domande più intime? I momenti di imprevedibile bellezza nella fatica della convivenza h24? Le riflessioni che emergono dalla vicinanza con la famiglia, le scoperte che hai fatto in casa?
Cosa è avvenuto nella testa e nel cuore dei giovani adolescenti durante il lockdown imposto dalla pandemia da Covid-19?
“Scatto di famiglia. Storie ed emozioni di adolescenti in quarantena” nasce da una sfida letteraria creata e promossa dal Centro Asteria che ha cercato, durante la quarantena, di farsi vicino agli studenti, dando loro voce per raccontare la loro condizione di ‘reclusione’ in famiglia.
I tanti testi ricevuti rimandano un’immagine della famiglia italiana per certi aspetti inedita: con sguardo sincero e commovente i giovani hanno riscoperto, pur in una situazione drammatica, il dialogo con genitori, fratelli e nonni.
La "SFIDA LETERARIA" è conclusa!
Abbiamo ricevuto tantissimi testi.
Siete stati quasi 300 a condividere con noi le vostre esperienze.
I VINCITORI
1° CLASSIFICATO
Lorenzo BrunoTerruzzi
Liceo Classico
G.B. Montini
Milano
classe 5a
Il testo si avvale della metafora classica del viaggio, ponendo l’attenzione non sulla meta, o sulle avventure procurate da incontri imprevedibili, ma sull’osservazione di un panorama apparentemente costante, tipico della traversata. La concezione del nucleo familiare come equipaggio, rendendo tutti necessari ma con ruoli diversi, trasforma i singoli in una collettività attiva. Questi elementi esprimono con ricchezza di evocazioni letterarie e esperienziali una possibile trasformazione dell’idea di famiglia operata dalle restrizioni causate dalla pandemia, idea piena di speranza e feconda di sviluppi nei tempi futuri.
La traversata della Famiglia
Dal nove di marzo con la mia famiglia sono partito per un viaggio a bordo di una nave di circa 130 metri quadrati che senza muoversi viaggia sull’oceano, un oceano sempre uguale, fatto di un parco e di un condominio che svetta davanti a noi. Così, su mia bizzarra idea, io, mia mamma e Stefano, il suo compagno, abbiamo deciso di vivere la quarantena: fingendo di essere su una nave dotata, sì di tutti i comfort, ma impegnata in una lunga e monotona navigazione oceanica. Fuori, al posto della sterminata massa d’acqua che appare sempre identica, si scorge la stessa “vista”, sempre uguale, ma proprio come l’oceano appare uguale tutti i giorni, solo ad una prima occhiata non lo è. Gli alberi si riempiono di foglie verdi, come i nostri capelli che imperterriti crescono, l’erba spunta lì dove prima non c’era, perché sempre schiacciata dalle scarpe, le poche persone che passano sono come i rari delfini che guizzano davanti alla prua della nostra nave. Proprio come su una nave, si può uscire solo sul ponte; noi usciamo sul balcone, con un po’ di immaginazione tutto combacia, no?! Il suo equipaggio, formato da tre persone e due gatti, è forte ma a volte la tensione si fa sentire, non avevamo mai fatto un viaggio così lungo e complesso; capita spesso che si discuta a cena sull’evoluzione delle cose, ma dopo tutto sta sempre a noi saper ritrovare quell’attesa che si è persa nell’immediatezza del nostro moderno stile di vita. Navighiamo insieme a vista, il porto potrebbe essere vicino per mettere finalmente i piedi sul molo; dobbiamo saper assecondare e sfruttare l’attesa. Partiti da un continente ospitale, dopo l’oceano si vedrà in lontananza la striscia di terra. Io e la mia famiglia la viviamo con un pizzico di ironia e fantasia, giorno dopo giorno, eterni scopritori di noi, in un’aura di forzata novità. Nel silenzio diverso di ognuno ci siamo scoperti reciproci e fondamentali sostenitori, rendendoci conto, solo adesso, che la nave Famiglia non può navigare da sola senza il suo equipaggio.
2° CLASSIFICATO
Virginia Porro
Istituto dei servizi per l’agricoltura e lo sviluppo rurale San Vincenzo
Albese con Cassano
classe 5a
Attraverso una struttura poetica originale, l’autrice fa emergere, come istantanee, tratti peculiari e intimi dei propri cari. Un lavoro accurato e intenso, costruito sull’utilizzo di parole dense di rimandi a significati profondi e familiari. Se da un lato il focus viene posto sulle persone, tuttavia, in questo “scatto di famiglia”, non viene trascurato nemmeno l’uso del grandangolo, per inserire la realtà quotidiana fotografata con delicatezza nel contesto collettivo più ampio dell’emergenza da Coronavirus.
Respira
21.41, oltre la finestra e la cinta di casa il lago respira,
le luci della città restando immobili mi mostrano
ancora una volta
come sia facile quel loro solito trucco,
immortalate in un immutabile scatto,
costringendo forzatamente la vista ovunque non vi sia movimento,
perché nulla nel silenzio e nella quiete cattura l’occhio.
Statico, tutto in un apparente eterno riposo.
21.41, senza schiamazzi dall’enoteca di fronte a casa,
partite di calcio a massimo volume dalla stanza di Jacopo – mio fratello.
Sento il respiro pacato del cane acciambellato tra le mie gambe.
La sua contentezza nel potermi ronzare attorno da mattina a sera;
alle volte invidio l’incapacità di pesare la gravità che accomuna questa quiete.
21.41, un’altra partita a burraco.
Ormai ci ho fatto il callo tra pinelle e tris di picche,
neri come queste giornate nonostante il sole.
Tre tornei persi,
mamma Daniela intima uno scambio di posti per avere la fortuna dalla nostra
e cantare vittoria,
perché quando capita,
che vinciamo noi,
a quei due inarrendevoli la canto nelle orecchie per ore.
21.41, dare la buonanotte alla nonna,
pranza e cena con noi
ma ora non posso più protrarmi nella morsa di un bacio;
a dividerci il tavolo su cui le ho preparato le pastiglie,
mi ringrazia nuovamente,
– poco importa se già l’ha fatto e non ricorda –
le regalo un sorriso che spero possa scaldarla quanto una stretta.
Prima che il cinguettio delle cince si percepisse così nitido,
quando ancora si rideva di tale paradosso,
nonna Maria palpitava sul ciglio dell’ingresso, salutando a gran voce mia zia
venuta a portarle le medicine.
«prima o poi ci riabbracciamo no, Antonella?»
21.41, papà prepara il borsone per domani,
la mascherina poggiata sopra.
Paolo fa il camionista.
Il tempo a disposizione permette al riaffioro ricordi passati,
sepolti da altrettanti,
tra essi 19 marzo 2010;
scrivevo:
«sei sempre felice e contento.
Sei sempre in piedi, al lavoro o a casa.
Sei il papà migliore del mondo – firmato – dalla tua Virginia»
Papà Paolo è in piedi
e si sveglia all’una e mezza per andare al lavoro anche ora.
Anche ora quando torna a casa
mi appresto a cingerlo stretto come quand’ero bambina,
perché ovunque oggi
ora
percepisco l’importanza di non darsi per scontati.
21.41, quando Hilary,
legata a me da stesso grembo,
chiama dai 16 km che ci dividono.
Solita passare a casa per trascorrere del tempo con me e Giulia
e al contempo invidiare la mia capacità di prendermi cura di piante e fiori,
nel tentativo di cogliere come tenere in vita la Fucsia che le ho regalato.
Non si è mai posto così evidente legame prima d’accorgersi che tale reclusione
non allontana ma fortifica
il desiderio di riconcilio.
21.41, tra mura d’acquamarina,
mattoni serrati e gerani a sfiorare il vento aprilino,
flebile e alle volte impercettibile,
respiro il cuore d’una città nascosta in ogni sua via,
dietro ogni suo angolo,
da vivere sui portoni di chi qui abita da una vita,
nell’inciampare dei bimbi,
nel ticchettio della grata in una serata calma, eppur poco fa colma di pioggia.
21.41, mi accorgo che la città respira anch’essa,
la sua inazione è solo un trucco.
3° CLASSIFICATO
Mohamed Ali
Italo Calvino
Noverasco
classe 1a
“Trincea”
Il testo è stato scelto per essere riuscito, in modo incisivo e con una forma di dialogo incalzante, a rendere più leggera la drammaticità del momento se paragonata alle tragedie passate. Inoltre, in poche righe, è stato capace di evidenziare, in modo provocatorio ma efficace, il valore intatto della Famiglia, anche a distanza di anni, di generazioni e di chilometri. Nella distanza, come quella con cui dovremo imparare a convivere per molto tempo, e nel dialogo, unico contatto possibile, emerge il vero affetto, pulito da ogni sentimentalismo.
Trincea
“Marco, non ce la faccio più a stare qua rinchiuso, ma poi, dopo, con quale diritto ci privano di poter uscire?”
“Sì, infatti ieri sono uscito e mi hanno beccato quegli sbirri”
“Ehi Filippo, cosa stai facendo?”
“Sto parlando a Marco, nonna”
“Vieni un attimo, ho una cosa da dirti”
“Che diamine vuoi?”
“Solo parlarti, caro mio”
“Ecco, sono arrivato. Cosa vuoi?”
“Tieni”
“È un foglio lurido e sporco, io non lo tocco”
“Senti Filippo, è da un po’ che ti sopporto con questi tuoi modi, ma giuro che se non la smetti le prendi”
“Okay okay, non c’è bisogno di agitarsi, comunque cosa c’è scritto in quel foglio?”
“Non ti hanno insegnato a leggere a scuola? Sei in seconda superiore ragazzo!”
“Ah, che rompi che sei, dammi qua!”
“Questa è la lettera che tuo bisnonno aveva scritto a mia madre, purtroppo nell’ ultimo posto che ha visitato: la trincea”
“Porca…”
“Osa dirlo e ti tiro uno schiaffo che ti fa dimenticare quelle parole”
“Comunque, ora lasciami leggere”
“Adesso me ne vado, tranquillo, ti lascio da solo a pensare ”
“Allora, ecco, iniziamo a leggere: Amore, spero che tu stia bene, le condizioni non cambiano, stiamo uno peggio dell’altro. L’altro giorno sono morti circa trentanove persone per le condizioni igieniche e penso che io sarò il numero quaranta. Ti sto scrivendo questo mentre ho il corpo disidratato e la gola in fiamme, la testa, ormai, me la sento più pesante di tuo fratello, sto scherzando….
Prenditi cura delle bimbe, e di a loro che il loro padre è in un altro paese, ogni tanto scrivi delle lettere e dalle loro dicendo che sono stato io a scriverle e, a volte, dà loro anche dei regali. Mi mancherai molto, ma la cosa che più mi fa stare male è pensare di potermi addormentare e non svegliarmi più, non svegliarmi più e non poterti vedere più. Voglio che tu sia forte, almeno per le nostre figlie… per favore non ti abbattere. Ti voglio bene.
Camp portil street,
chiunque tu sia, dalla a mia moglie”
“La famiglia conta, conta davvero e ringrazia che puoi vederla quando vuoi”
“Si risposò?”
“Mai”
“Nonna, Grazie”.
TESTI DEGNI DI MENZIONE
Alba Rossi, Liceo Galvani, Milano, 1a
“L’esperienza della quarantena raccontata attraverso immagini sonore, il suono di un’orchestra e lo schianto di un vaso che si rompe, ci apre al mondo familiare dell’autrice. Un testo sincero che parla di dissonanze e di paziente ricerca di armonia all’interno di una situazione, quella di una forzata convivenza domestica, in continua ricerca di equilibrio.”
Il vaso
Un suono che spesso interrompe il silenzio nella mia casa, in questo periodo, è quello di mia madre che cerca di farsi capire nelle lezioni online. Mia madre fa l’insegnante, e adesso quasi rimpiange di poter sentire chiaramente le voci ancora infantili dei suoi alunni, che sono diventate quasi irriconoscibili. Ciò che accade subito prima una lezione, però, potrebbe essere paragonato ad una orchestra che suona in una piccola stanza.
Di solito mia madre inizia con il chiamare, con una rabbia riconoscibile, mia sorella, perché il tutorial di Youtube su come avviare una lezione, non ha funzionato… subito la vedo, spaventata, precipitarsi nello studio di mia madre, tanto velocemente che quasi fa cadere un vaso poggiato su una mensola, il quale scommetto non raggiungerà la fine della quarantena. Appena mia sorella entra nello studio, viene travolta dal volume troppo alto del computer, e dal disordine. Da qui in poi la situazione diventa talmente rimbombante che non serve entrare nella stanza per sapere cosa stia succedendo.
Come prima vibrazione si ode un semplice sospiro che mia sorella libera quando capisce di poter stare tranquilla. Quasi immediatamente dopo si percepiscono dei lamenti indistinti su quanto siano complicati i computer. Mia sorella inizia a digitare qualcosa sulla tastiera, sistemando la situazione. A questo punto, ritorna il silenzio nella casa, ma dura molto poco, infatti inizia la sua lezione. Se prima dallo studio si sentivano solo schiamazzi, ora quella stessa voce è diventata stridula e pungente. Da qui in poi al mio orecchio giunge solo un vocio formato da accenti e toni diversi, persino l’orchestra nella stanza si rifiuterebbe di ascoltare. Solo dopo un’ora, torna la quiete nella mia casa. Forse, in realtà, non è la cosa migliore da avere, perché una famiglia nel più totale silenzio è molto triste, ma sicuramente è meglio di dover rendersi conto, attraverso uno schianto improvviso, che quel vaso quest’oggi si è rotto, una volta per tutte.
Silvia Lusenti, Istituto statale Francesco Gonzaga, Castiglione delle Stiviere, 4a
Il componimento mette in relazione, con sapienza e intensità emotiva, frammenti di immagini personali e un titolo evocativo di una situazione fortemente collettiva. La data del titolo ci ricollega a un tempo storico, in cui rappresenta la liberazione, e al tempo attuale, in cui racconta i molti giorni di isolamento, e la necessità del protrarsi della resistenza. In questo modo, tutte le immagini innescano nel lettore una molteplicità di significati e di memorie, e lo conducono attraverso un percorso molto preciso: da un passato di relazione, di eroismo, di protezione, di attività in ampi spazi, a una realtà di piccole cose non meno fruttuose, e che portano ancora bellezza. La memoria nutre di senso il presente e la percezione della vita. La presenza di ritmi classici, endecasillabi, settenari, novenari conferiscono alla composizione un ritmo mobile, ma sempre solenne e controllato.
Venticinque aprile
Mi trovai dondolando sui talloni, tra polvere e
vernice rotta dal tempo – Oh!
Ricordarsi nel lume della gioia il manto di neve
caldo, pelle, macchiato dalle dita di resina di pino.
Potessi ancora essere cullata in una nuvola di mani,
manto di lana – allora sì!
Allora il buio non potrebbe più pugnalarmi con i suoi pianti,
i latrati, il sussulto amaro del ramo che si spezza.
Eppure trovo ancora bellezza nel mormorio amabile
dell’acqua che lava l’insalata,
nelle storie di scarpe, di terra, di mani sporche di farina,
nel germoglio della risata di mia madre,
nelle ore che mi liberano in un lungo sospiro di fumo.
Se questo non vuol dire vita, chi mai la vorrebbe?
Nicole Garzaniti, Istituto Francesco Gonzaga, Castiglione delle Stiviere, classe 4a
L’elaborato ci ha colpiti per la trasmissione di una condivisa drammaticità della situazione, per aver descritto in modo molto veritiero la realtà e per un giusto equilibrio tra racconto quotidiano e riflessioni più personali.
Guerra silenziosa
11/04/20
Caro diario,
ci sono momenti nella vita che ti guardano dritto in faccia e non puoi non pensare: “questo cambierà tutto”. Ho capito che questa è una guerra, amico mio, una di quelle che speri di non vivere mai. Lo sento nello stomaco, lo vedo nello sguardo preoccupato dei miei genitori quando insieme guardiamo il telegiornale e ascoltiamo il numero delle vittime e degli infettati. Silenzio. Passa un’ambulanza. Silenzio. In guerra non servono parole. D’improvviso il mondo è diventato freddo: nessun bacio, nessun abbraccio, persone depresse dalla testa china. Meglio evitare i contatti umani. Eppure è una distanza fisica che nei suoi modi perversi ci rende uniti. “Siamo piccoli così”, dice mio papà mostrando il pollice e l’indice a qualche millimetro di distanza e solo adesso l’ho capito veramente. È incredibile come ci volesse un minuscolo virus e qualcosa di enorme come una pandemia mondiale per stare a casa con la famiglia, ed è ancora più incredibile e pauroso, scoprire quanto poco ci conosciamo. Siamo arrivati a quel punto dove non possiamo più scappare, non esiste più la dolce quotidianità dove ci possiamo nascondere e allora è guerra anche con noi stessi, con la nostra famiglia ed è arrivato il momento di combattere i problemi: ci sarà o una vittoria o una sconfitta. E fa tanta paura, ma è una paura condivisa che assieme diventa speranza. Per la prima volta comprendo di non essere poi tanto diversa da quelle persone chiamate genitori e che forse il pane appena sfornato è più buono se lo facciamo a casa. Forse ho aperto gli occhi: sento la necessità di fare dei sacrifici, ma non per il mio futuro, per comprare il vestito costoso o lo smalto glitterato ma perché so di avere una famiglia che devo proteggere. Forse, caro diario, sono diventata grande.
Nicole
Edoardo Malacrida, Paolo Frisi, Monza, 4a
L’autore merita una menzione per essere riuscito a raccontare con dolcezza e con uno stile originale la bellezza della vita che non viene bloccata dal Coronavirus, e per essere riuscito a dare un concreto segno di speranza anche in questi giorni tristi.
Fotogramma
Pedalo, pedalo e pedalo.
Ho sempre amato andare in bicicletta: per andare a scuola, a casa dei nonni, vivo su un sellino bollente d’estate. La piaggia non mi ha mai fermato, nessun ombrello, poca visibilità, ma pedalo, pedalo, pedalo.
E arrivo in ospedale, tutto fradicio, la felpa aderisce alla pelle. E’ un piovoso venerdì di dicembre, sono in anticipo rispetto all’orario di visita ma non m’importa. Corro su per le scale, arrivo al terzo piano del settore C e faccio per raggiungere il corridoio giusto ma trovo un ostacolo: una porta blindata con una minuscola finestra di vetro che mi obbliga a fermarmi.
C’è una specie di citofono a lato, lo suono e lo risuono, nessuna risposta.
A un tratto, una visione mi fa gridare silenziosamente di speranza: mio zio in camicia sta parlando al telefono a pochi metri da me dietro quel muro invalicabile. Attiro la sua attenzione bussando, mi nota e magicamente mi apre. “L’ombrello?”, lo seguo. Il silenzio che mi circonda pare custodire la preziosa bellezza che si cela dietro le pareti di quel corridoio.
Camera 8.
Una volta a settimana dal 9 marzo, chiamiamo con FaceTime i miei zii. Lui risponde, lei a fianco a lui. Ha qualcosa in braccio.
Inclina l’inquadratura e ricambio lo sguardo di due occhi azzurri. Splendidi. Tondi, profondi. E’ una perla che cerca invano di portare alla bocca un ditino, un angelo senza ali ma che concede un volo estatico a chi ne sfiora la pelle.
E’ mia cugina, che vorrei solo prendere in braccio e cullare mentre la osservo, consapevole del fragile amore di cui sono responsabile. Ricambio lo sguardo di quei due occhi azzurri e memorizzo quel fotogramma nella speranza di poterla di nuovo toccare, nella speranza che un giorno io possa in sicurezza pedalare, pedalare, pedalare ancora e raggiungere l’altra parte della mia famiglia.
Pedalo, pedalo, pedalo. In mente solo uno scatto, uno scatto che mi ricorda il numero otto di una camera dove ho incontrato per la prima volta Biancamaria
Sofia Rossi, Liceo Scientifico Statale Paolo Frisi, Monza, classe 2a
“Utilizzando il chiaro riferimento al celebre carme di Catullo presente nel titolo, l’autrice elabora il proprio componimento, pennellando come in un quadro, alcune efficaci immagini rappresentative di un “ossimoro familiare”, fatto di sentimenti contrastanti, in cui l’odio, alla fine, si stempera nella consapevolezza grata che più durevole è l’amore.
Odi et amo domestico
Tutto il tempo trascorso in famiglia
libera ciò che il cuore cela:
la mascherina non può fermare
le parole non soppesate e
innumerevoli sentimenti
sputati senza filtro alcuno.
Irrefrenabile è la brama
di qualche caldo raggio di sole
ma, giacché ciò pare impossibile,
tutta la rabbia è riversata,
incontenibile, sui parenti,
la cui sola colpa è d’esser lì.
La costrizione tra quattro mura
è ricerca di solitudine
e necessità di compagnia:
i volti familiari son quelli
contro cui rapidi ci si scaglia
ma con cui subito si fa pace.
E ricorrono ciclicamente
rumorosi silenzi di rabbia
e silenti parole d’amore,
tali poiché il più sincero affetto
è quello delle piccole azioni
che non pretendono nulla in cambio.
Quando ogni litigio si conclude
meno pesante è la reclusione
e la causa è il riconoscimento
di un volto sinceramente amico,
che ogni rabbia sa trasformare
in gratitudine per la vita.
Stella Lo Porto, Liceo scientifico Leonardo Da Vinci, Milano, classe 3a
L’autrice merita una menzione per essere riuscita a fotografare in modo asciutto ma efficace la difficile convivenza durante la pandemia da parte di un piccolo nucleo familiare all’interno di spazi ridotti. L’amore che traspare nel difficile rapporto madre-figlia è inversamente proporzionato agli spazi limitati raccontati nella composizione, e traspare un grande affetto nella difficoltà.
Come sempre.
Sono Stella, vivo a Milano e, come spero tutti coloro che stanno leggendo, sono chiusa in casa da non so più quanto tempo, ho pensato che tenere il conto dei giorni fosse futile.
La mia famiglia è molto piccola. Qui, a dover convivere, siamo solo io e mia madre.
La nostra convivenza in fin dei conti non è poi così tanto cambiata. La maggior parte del tempo la passiamo ognuna per i fatti propri, io nella mia camera a studiare o a fare le mie cose e lei in cucina davanti al suo computer a lavorare con la radio che suona in sottofondo e una sigaretta che si consuma fin troppo in fretta, come sempre. Spesso dalla sua postazione mi chiama, io le rispondo, lei non mi sente e sono costretta ad attraversare tutta casa (anche se è piccola, il corridoio percorso controvoglia può sembrare così lungo) per domandarle cosa voglia. Così lei mi chiede di versarle un bicchiere d’acqua, acqua che si trova nel frigo, frigo che si trova proprio a fianco a lei. Sbuffo e al mio sbuffare inizia una lite campata per aria che termina con urla e porte sbattute, come sempre. Alla sera ceniamo ascoltando le notizie declamate al tg, poi sparecchio e lascio i piatti sporchi nel lavello che l’indomani saranno causa di una nuova lite, come sempre. Ma, insomma, chi ha voglia di lavare i piatti alla sera?
Capita che qualche volta seppelliamo l’ascia di guerra e passiamo del tempo abbracciate sul divano a parlare e a sorridere, pensando ai tanti momenti difficili che siamo riuscite a superare, come sempre. Come sempre, perché sono tanti, forse anche troppi i momenti difficili nella vita di una madre single che, potendo contare solo sulle sue forze, cresce una figlia adolescente con tutte le sue paturnie, garantendole tutto, anche quando i soldi non bastano, anche quando tutto sembra buio e la strada è in salita. La nostra è una storia travagliata, segnata però da un perenne lieto fine dovuto dalle nostre forze. È solo grazie a noi se ce l’abbiamo fin ora fatta. Supereremo anche questa, come sempre.
Federico Borgio, Istituto Moreschi, Milano, classe 1a
L’elaborato è piaciuto ai giudici per l’ironia del racconto e per aver descritto la vita familiare di un settimane intere grazie a poche e chiare immagini. ha riassunto ciò che tante famiglie vivono in modo personale e non banale, riuscendo a rimanere nel ricordo di chi legge, dote non banale nemmeno per gli scrittori esperti.
Finalmente è arrivato il Ping Pong
E’ da sei settimane che siamo reclusi in casa.
In queste sei settimane ho assistito a numerose e divertenti fasi che si sono susseguite nella mia famiglia e che ci hanno permesso di arrivare sani e salvi fino a qui.
Inizialmente le grandi pulizie hanno animato le nostre giornate, tutti gli armadi venivano svuotati, montagne di oggetti e vestiti venivano selezionati e scartati e alla fine della giornata tutti sembravano molto soddisfatti del lavoro fatto.
Poi siamo passati alla fase culinaria. Non venivano più preparati i soliti pranzi e le solite cene veloci e ripetitive, perché mia sorella Marta è diventata un’appassionata produttrice di pasta fresca. In ogni momento della giornata prendeva uova e farina e si metteva ad impastare e a produrre lunghissime tagliatelle, secondo me troppo lunghe.
La mia cucina era perennemente invasa da tagliatelle.
Le abbiamo mangiate per giorni e giorni condite con qualsiasi tipo di sugo.
Buone, molto buone, ma ad un certo punto anche le tagliatelle hanno stufato e non hanno più dato quel brivido di novità.
Siamo quindi passati tutti con entusiasmo al giardinaggio in terrazza.
Le temperature esterne erano diventate più calde e abbiamo quindi potuto dedicarci alla cura delle piante che abbiamo sul terrazzo, abbiamo potato, rinvasato, piantato, seminato.
Ma ad un certo punto anche in terrazza non c’era più nulla da fare.
E finalmente è avvenuto qualcosa di veramente fantastico.
I vicini di casa hanno portato in cortile un tavolo da ping pong, io adoro giocare a ping pong!
Finalmente qualcosa di veramente divertente da fare.
Da quel giorno le mie giornate sono scandite dalle partite di ping pong contro mio padre, mia madre e mia sorella.
Cosa dire? Sono in assoluto il più bravo, batto tutti anche se mio padre è piuttosto bravo, e questo mi dà un’enorme soddisfazione, mi migliora l’umore e rende queste lunghe giornate sopportabili, quasi gradevoli.
Cairoli Gioele, Liceo artistico Melotti, Cantù, 3a
“Attraverso l’elaborazione di un’immagine che fa riferimento alla solitudine e alla separazione, l’autore ci accompagna alla scoperta di un mondo familiare solo apparentemente chiuso in se stesso. Un testo elaborato, che utilizza parole scelte con cura per rappresentare con ammirazione il mondo interiore di una madre-maestra e per farci comprendere che la famiglia, per sua natura, anche quando obbligata tra le mura domestiche, non può mai essere “un’isola”.
In casa ho un’isola
Ogni giorno quando torno da scuola
Vi ormeggio, attraccando con i miei pensieri e doveri.
Solitamente il pomeriggio su questa terra sono solo
E questo tempo mi piace molto.
Gli ultimi avvenimenti, però, hanno scombinato isole e solitudini
Così tanto che anche un lupo solitario, come me,
ha dovuto far spazio ad altri viaggiatori
approdati obbligatoriamente in quel che credevo fosse il mio unico porto;
tra questi c’era una signora sulla mezza età.
L’isola non è grande e ognuno ha preso e ceduto spazi;
in questo scambio si sono scoperte rotte di viaggio prima sconosciute e diari di viaggio segreti.
Un giorno, in una caletta poco distante dal mio porticciolo, ho scoperto la signora sulla mezza età:
scriveva assorta, su fogli volanti, parole a bambini e poi li ripiegava con cura trasformandoli in barchette,
quindi li affidava alla corrente marina perché arrivassero alle sponde di arcipelaghi non molto lontani
dalla nostra piccola terra.
Un mattino vidi la donna occupata a raccogliere le barchette, questa volta spinte dal vento fino a lei:
così, casualmente, mi ritrovai ad assistere alla commozione frutto delle lavorate favole di quelle lettere
appena raccolte,
così scoprii il suo senso di appartenenza a quei piccoli futuri di ogni altro arcipelago,
un suo mondo che fino ad ora non mi era mai stato svelato.
Stare sull’isola con la donna e poter intravvedere i legami tra lei e i suoi piccoli, mi ha fatto sentire
spettatore del mio passato da alunno.
La signora di mezza età è mia madre.
Mia madre fa la maestra.
L’isola è il grande tavolo, al centro di casa mia.
Elisa Vitale, Istituto Francesco Gonzaga, Castiglione delle Stiviere, classe 3a
Il testo ci ha riportato a rivivere con te un’esperienza sincera e, nella sua semplicità, molto coinvolgente. L’elaborato ci ha colpiti per scorrevolezza, immagini chiare e coinvolgenti, giusto equilibrio tra racconto quotidiano e riflessioni più personali.
Piccole riflessioni di una ragazza qualunque
Fino al mese scorso io pensavo non mi mancasse nulla.
Invece, in questi giorni sono tornata a ricordare cosa significhi amare i propri genitori. Dure queste parole, vero? Eppure, sono sincere. Perché nella frenesia di tutti i giorni si compie il fatidico errore di dimenticarselo. Ci dimentichiamo che loro rimangono fermi dove li abbiamo scordati, pronti a salvarci.
In questi giorni ho imparato anche a notare piccole abitudini che mi riportano a quando ero bambina: la colazione fatta tutti insieme la domenica, la mia mamma che prima del lavoro viene a svegliarmi, sussurrandomi “buongiorno patatina”, l’aroma del caffè appena fatto che incombe nella stanza riempendomi i polmoni di buon umore, i pranzi fatti ad orari decisamente improponibili, mio papà che nonostante i miei diciassette anni vorrebbe trattarmi ancora come se ne avessi cinque, la piadina del martedì sera e gli sguardi di rimprovero quando non rifaccio il letto.
Ho ricordato anche il gusto di una banale litigata, i pianti immotivati e le “scuse” innocue che la seguono. I sentimenti diventano più rumorosi in queste circostanze e ogni sentimento è amplificato…ma è bello, perché ricominci a vivere davvero.
Ho imparato ad osservare i miei genitori, che dopo più di trent’anni, a modo loro, non smettono di amarsi. Ho notato la fede di mio padre riposta metodicamente ogni sera sulla mensola del bagno, sempre lui che alla sera massaggia i piedi stanchi dalla giornata di mia mamma, lei che aspetta solo i suoi complimenti per la cena che ha preparato, loro che guardano serie tv come due adolescenti su Netflix e mille altri piccoli gesti che mi fanno desiderare di trovare un amore così: che scorra nel tempo ma che non muti di un giorno.
Quindi se c’è una cosa che ora direi alla me di qualche anno fa è questa: non dimenticarti mai dei “tuoi vecchi”, perché per quanto si facciano da parte, darebbero la vita per te.
Eleonora Frison, ITIS Pino Hensemberger, Monza, 2a
Questo elaborato ha colpito per essere riuscito in modo divertente e originale a offrire uno sguardo insolito e provocatorio della drammatica realtà contemporanea. La leggerezza e l’autoironia sono doti rare da perseguire anche nei momenti di maggior tragicità.
DIARIO
15/03 E’ almeno una settimana che sono in pigiama, ringrazio gli “inglesi” per aver diffuso il pigiama nel 17° secolo, oggetto molto utile.
Sto perdendo l’uso della parola, ormai ho conversazioni solo con mio fratello il quale si limita a grugnire.
19/03 C’è un Puzzle da 2000 pezzi attualmente in costruzione nel quartiere salotto, è un po’ di tempo che non passo da quelle parti. C’è troppo traffico, preferisco rimanere tra le zone della cucina e della mia camera.
20/03 Appena sveglia ho pensato: “Oh caspiterina, sta un po’ a vedere che il COVID-19 è colpa mia che in montagna non ho voluto finire la partita a JUMANJI”, dopo di che sono tornata a dormire, in qualunque caso non potendo uscire di casa il problema non potevo risolverlo dato che JUMANJI è rimasto in montagna.
Come si suol dire “MI SONO MESSA L’ANIMA IN PACE”.
21/03 Ho chiesto a mia madre se avesse denunciato il parrucchiere vedendo i capelli a SCODELLA che avevo da piccola; mi ha risposto che tutti i bambini hanno i capelli così. STO ANCORA CERCANDO DI CAPIRE CHE BAMBINI VEDA LEI.
Il pomeriggio ho fatto un bellissimo disegno, mio fratello mi ha chiesto se fossi tornata dall’asilo dato che avevo tutte le mani sporche tra pastelli a olio, sbianchetto e pennarello.
22/03 E’ domenica e non si sa il perchè mi sono dovuta svegliare alle 8.00, i miei genitori non sono riusciti a darmi una spiegazione plausibile a questo orrore.
23/03 Ho sistemato la cassapanca in camera mia, stranamente non ci ho trovato cadaveri, avrei giurato di averci nascosto qualcuno nel 2015 o giù di lì, evidentemente mi sbagliavo.
25/03 Ho trovato posto ai pattini, da quando ho iniziato a pattinare (7 anni fa) sono sempre stati dietro la porta di camera mia, la sera quando andavo a dormire li sentivo piangere, il mio bene più grande da solo come se fosse in castigo.
(Pensare che mia madre li voleva chiudere in garage)
Ho deciso di sistemarli nella cassapanca, ora la sera sono felici, mi danno la buonanotte e li sento dormire.